Roberto Gervaso mi fa sapere che lavora attualmente intorno a un libro sulla vita di Cagliostro e mi chiede di passargli alcune informazioni e, se del caso, di fornirgli qualche chiarimento. Ben poco so io sulle vicende dell’avventuroso personaggio che non siano già consegnate in gran parte alla storia. Comunque, gli rispondo facendo del mio meglio per istradarlo, suggerendogli, fra l’altro, di fare una capatina negli studi della RAI-TV, in Roma, perché le venga consentita la visione, in via riservata, di un cortometraggio di José Pantieri, girato tempo addietro sulle rupe di San Leo e dentro la tetra cella dove Cagliostro morì: cortometraggio per la cui realizzazione anch’io ho dato una mano e che, per svariate e complesse ragioni, è tenuto tuttora in quarantena.
Alla luce di recenti rivelazioni provenienti dalla Francia, dove più a lungo operò, si desume che Cagliostro ha lasciato un gran numero di manoscritti dei quali, a un certo momento, si è impossessato il Sant’Uffizio. Se non sono stati bruciati, essi dovrebbero trovarsi negli archivi del Vaticano, e v’è da augurarsi che, in omaggio alle nuove idee dell’azione ecumenica e riconciliazione coi “fratelli separati”, le autorità ecclesiastiche vogliano dare alla luce queste carte importanti le quali conterrebbero le giustificazioni di Cagliostro cui egli stesso fece allusione durante la prigionia fino alla morte.
In attesa che le autorità vaticane e gli organi superiori che presiedono alla RAI-TV diano via libera al cortometraggio del giovane regista romagnolo, il quale mi dice che, in caso della messa in onda del documentario e di eventuali tagli, egli firmerà il proprio lavoro con lo pseudonimo di Giuseppe Rinuncia, e con la speranza di acquisire nuovi elementi da inviare a Gervaso, in attesa di tutto ciò, dicevo, in un tardo pomeriggio d’agosto mi tolgo dagli ozi della spiaggia e del marasma del litorale e, lungo la comoda e non superaffollata rotabile di Valmarecchia — la stessa prescelta da Giulio Cesare, dopo varcato il Rubicone, per raggiungere Roma, e percorsa dal Poverello quando andò a Verna per ricevere le stigmate — in mezzo di mezz’ora di macchina e senza correre, traghettando dalla fascia di mare alla collina, favorendo, così, l’auspicato scambio turistico con l’entroterra, raggiungo la vetta di Monte Feretrio: una variante al tran tran delle balere, consigliabile a quegli ospiti desiderosi del romanzesco e bisognosi di respirare un boccone d’aria pura…
Luigi Pasquini
(il Resto del Carlino, 28 luglio 1970)